La COMUNITÀ DI CAPODARCO DELL’UMBRIA sul piano giuridico è un’associazione che, con il nome di CENTRO LAVORO CULTURA, si è costituita davanti al notaio Marchetti, nel1984; era l’anno in cui la comunità nazionale della quale facciamo parte rinnovava il suo statuto e cambiava il suo nome da “Centro Comunitario Gesù Risorto” a “Comunità di Capodarco”. Successivamente la nostra comunità ottenne il riconoscimento come Persona Giuridica sia da parte della Regione Umbria che da parte delle Prefettura di Perugia; sul piano operativo essa prioritariamente un Presidio socio/riabilitativo autogestito e convenzionato/accreditato c/o l’ASL Umbria n.1, con validità per tutto il territorio nazionale.
Questa è la nostra collocazione civile: ci situiamo in quella particolare zona dello Sato Sociale che viene chiamata PRIVATO SOCIALE.
Nell’area del sostegno alla categorie deboli, come in tante altre aree, opera un PRIVATO SPECULATIVO che, a titolo di profitto, offre buoni servizi là dove il Pubblico, a titolo di bene comune, sa offrirne di pessimi.
Quattro medici bravi e dall’appetito robusto mettono su con i soldi di papà una clinica coi fiocchi, il Pubblico la convenziona, tra gli utenti chi può la preferisce all’ospedale civile, troppo spesso bucherellato dalla burocrazia.
Ben più rilevante il PRIVATO SOCIALE, cioè l’insieme delle iniziative che, nel sociosanitario, a beneficio dei ceti più deboli, vengono promosse non dagli organi dello Stato, ma da cittadini a mani nude, nascono “dal basso”, dal volontariato, dalle sue motivazioni.
Tra stato e mercato: il Privato Sociale nasce nella società e chiede legittimazione allo Stato e, contrariamente al Privato Speculativo, non opera a titolo di investimento economico, ma a tiolo di solidarietà umana
Nel suo sito personale (www.angelomariafanuccci.com) don Angelo si è dilungato nell’esporre e commentare il tema de privato sociale: come nasce, il suo collocarsi fuori dalla retorica zona dell’eroico, le sue molte valenze: al di là del benessere procurato a chi ne beneficia, che rimane la valenza fondamentale, il privato sociale ha una forte valenza politica e una ancora più forte valenza culturale, in ordine ai modelli di auto coltivazione della propria umanità.

1.1.1948: la firma della Carta Costituzionale

Il primo riferimento: la Costituzione della Repubblica Italiana

La Costituzione della Repubblica Italiana è tra le migliori del mondo. E questo perché è stata composta in un momento particolare e da uomini di diversa ispirazione ideale, ma tutti fermamente decisi a dare alla giovane repubblica uno statuto di alto profilo, dopo l’abisso di umiliazione nel quale il fascismo aveva precipitato il popolo italiano. La legge che fa a fondamento al nostro Stato è stata scritta tra il 2 giugno del 1946 (quando il popolo, con le prime elezioni a suffragio universale, elesse l’Assemblea Costituente, con il compito -appunto- di redigere la costituzione della Repubblica nata in quello stesso giorno) e il 1 gennaio 1948 (quando il suo testo definitivo venne firmato dal Presidente Enri De Nicola).

In quei 18 mesi lavorarono gomito a gomito Socialisti, Liberali e Cattolici democratici, discutendo a non finire, ma sempre con la ferma intenzione di riversare nel documento che stava nascendo il meglio della propria concezione di stato e della propria esperienza storica: operazione perfettamente riuscita, a parte qualche sbavatura su temi particolari (l’inserimento dei Patti Lateranensi dell’art. 7).

Per quanto riguarda la collocazione del nostro impegno per e con i meno fortunati, è di importanza fondamentale, soprattutto nel suo secondo comma, l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana che suona così:
• Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
• È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Chiunque nel nostro Stato non riesce ad esercitare i propri diritti di persona e di cittadino ha diritto a che lo si aiuti ad uscire da questa situazione; non deve elemosinare, ha diritto.
Ma se chi è nel bisogno ha diritto ad essere aiutato, chi deve farlo?

Il secondo riferimento: l’aggiornamento della nostra Costituzione e la 328/2002

Alla domanda “A chi tocca” dare corpo a quel particolare sostegno che, secondo l’art.3 della Costituzione, è un diritto dei poveri, il Parlamento Italiano ha risposto riformando un Titolo della Costituzione e approvando una legge di taglio nuovo, la 328/2002. Con queste decisioni è stata finalmente allargata la base dello Stato e da quel momento realtà come la nostra CdCdU entrano a testa alta a far parte dello Stato; era quello che anni prima, “in tempi non sospetti” (come suol dirsi), nella minuscola sede di Via della Vite, a due passi dal Palazzo, ci diceva il Prof. Cotturri, Direttore di quel Centro per la Riforma dello Stato al quale aveva dato vita Pietro Ingrao. Ci diceva, l’illustre docente di dottrine politiche: “Voi di Capodarco non vi dovete più chiamare Privato Sociale, ma Pubblico senza Stato2.
La riforma del Titolo V della Costituzione la Legge 328/2002, sul Sistema integrato dei servizi, hanno stabilito che ai diritti delle persone svantaggiate possono andare incontro sia le iniziative pubbliche che le iniziative private.
L’iniziativa pubblica cala dall’alto, dallo Stato (Governo centrale, Governi regionali, Comuni) verso la società.
L’iniziativa privata sale dal basso, con il consenso e il coordinamento dello Stato, dalla società verso le persone portatrici di difficoltà che impediscono loro l’uguaglianza con tutti gli altri. (foto da Video per il sito, n . 02-04)

Il terzo riferimento: l’art. 16 dello Statuto della Regione dell’Umbria

Sulla scia della riforma del Titolo V della Costituzione e della legge 328/2002 si sono mosse le Regioni: alcune subito, altre un po’ più tardi; tra queste ultime la Regione Umbria. Ed era logico che fosse così: il suo passato politico, che è stato ininterrottamente di colore rosso acceso, la metteva sul chi va là di fronte alla possibilità che una poco attenta formulazione offrisse poi a operazioni speculative il destro di passare per operazioni solidaristiche. Quibus pramissis, oggi l’art. 16 dello Statuto della Regione Umbria suona così:

16.1 La sussidiarietà è principio dell’azione politica e amministrativa della Regione.
16.2 La Regione, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, conferisce funzioni amministrative, nelle materie di propria competenza, ai Comuni singoli o associati, ed alle Province, in modo da realizzare livelli ottimali di esercizio ed assicurare la leale collaborazione tra le diverse istituzioni.
16.3 La Regione favorisce l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati e delle formazioni sociali per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. A tal fine incentiva la diffusione dell’associazionismo ed in particolare la formazione e l’attività delle associazioni di volontariato.

IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ

Il principio di sussidiarietà costituisce uno dei fondamenti della dottrina sociale della Chiesa ed è stato così formulato da Pio XI (Lettera enciclica Quadragesimo Anno,1931)
Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare […] perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento nella società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium) le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle. 
E quindi: È necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad assemblee minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minore importanza in modo che esso possa eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano […] di direzione, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità.
Noi ci siamo incontrati, invalidi e sani, ci siamo detti “facciamo un’associazione!”, abbiamo compilato uno statuto, siamo andati da un notaio, abbiamo poi chiesto allo Stato che finanziasse quanto facevamo non solo e non tanto PER, quanto CON gli invalidi.
E abbiamo cominciato a vivere e a lavorare insieme.

Lo Stato (una volta il Ministero della Sanità, oggi l’Assessorato Regionale alla Sanità) ha verificato la bontà della nostra iniziativa, ha fissato dei criteri generali e si è convenzionato con noi, assegnandoci dei compiti, obbligandoci ad assumere un certo numero di operatori, dotati di certe qualifiche: in una parola, ha fissato tutta una serie di parametri, il cui rispetto motiva l’erogazione di una retta giornaliera.
La nostra quotidiana lagnanza è che in tutto questo l’acclaramento della qualità del servizio non ha quel posto primario che merita.
Oggi è in atto un processo che porterà a sostituire la convenzione con l’accreditamento, grazie al quale non saremo più una realtà privata che su determinati obiettivi si prende determinati impegni con lo Stato, ma faremo parte integrante del Servizio Sociosanitario Nazionale.