La Comunità di Capodarco dell’Umbria è un’associazione che persegue
lo sviluppo della persona, con particolare attenzione agli emarginati;
la rimozione di ogni ostacolo al pieno sviluppo della personalità dell’individuo, nel rispetto della cultura, dei valori e dello spazio creativo di ciascuno;
l’effettiva partecipazione democratica alla vita sociale di ogni persona, attraverso la lotta contro ogni forma di emarginazione.
Inoltre, per la matrice cristiana di parte dei suoi membri e per l’esperienza di servizio all’uomo di tutti i suoi membri, la Comunità di Capodarco dell’Umbria è luogo di incontro e di confronto fra quanti, pur variamente ispirati sul piano ideologico e culturale, ne condividono lo spirito e l’impegno vitale.
La Carità nutre il morente

Infine la Comunità di Capodarco dell’Umbria, pur condividendo lo spirito e la prassi pluralista che caratterizza la Comunità di Capodarco, collabora, in modo tutto particolare con la Chiesa locale, per incrementare, all’interno di essa, la dimensione di liberazione personale propria del Cristianesimo. (dallo Statuto della Comunità di Capodarco dell’Umbria, art. 2)
Siamo una riedizione moderna dell’impegno che da sempre caratterizza fortemente la Chiesa: l’impegno caritativo, di vicinanza e di servizio ai più deboli. La storia della Chiesa così come (molto marginalmente) viene insegnata nelle scuole medie e all’università è drammaticamente incompleta. Il Manzoni entrò in crisi quando si rese conto quanto fosse falsa la storia d’Italia ridotta a cronaca di principi e di contesse, di trattati e di guerre; e volle dedicarsi a illuminare la fascia inferiore della storia, dove si muovono gli uomini veri, che però attraversano la terra (la Loro terra, quella che Dio ha dato a tutti) come estranei. Alla storia della Chiesa è successo qualcosa di peggio: è stata ridotta a cronaca di documenti del Magistero, a vicende strutturali, a trattati e concordati con i vari stati, a beghe fra ordini religiosi , ecc.: e così tutti sanno chi era Vannozza Cattani, che dette a Papa Alessandro VI una barca di figli, tra i quali il Duca Valentino e Lucrezia Borgia, ma nessuno sa chi fu Santa Louise de Marillac, la nobildonna fondatrice delle “Cappellone”, alla quale San Vincent de Paul non solo chiese di lasciare perdere il mondo fatuo dei potenti e delle damine, per dedicarsi ai poveri, ma addirittura le raccomandò: “Quando offri una minestra ad un povero, ricordati sempre di chiedergli scusa” per quel mondo infame che non gli ha permesso di guadagnarsi nemmeno una minestra. La vera, grande, grandissima storia della Chiesa è la storia della carità cristiana, della sue mille invenzioni, dei suoi ritardi e delle sue folgorazioni.

LA NOSTRA ADESIONE AL MAGISTERO DELLA CHIESA

Capodarco è nata nell’alveo del cristianesimo cattolico, apostolico romano e intende fermamente restarci, con un suo specifico apporto, forse anche originale, sicuramente in presa diretta con le gioie e la speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di quelli che soffrono: è il famosissimo incipit della IV Costituzione Conciliare, la Gaudium et spes.
Capodarco si riconosce in tutto e per tutto in quello che BENEDETTO XVI ci ha insegnato al n. 21 della DEUS CARITAS EST, dove prende le mosse benedicendo la diversificazione delle iniziative di sostegno ai poveri ispirate al cristianesimo:
L’aumento di organizzazioni diversificate, che si impegnano per l’uomo nelle sue svariate necessità, si spiega in fondo col fatto che l’imperativo dell’amore del prossimo è iscritto dal Creatore nella stessa natura dell’uomo.
 
Tale crescita, però, è anche un effetto della presenza nel mondo del cristianesimo, che sempre di nuovo risveglia e rende efficace questo imperativo, spesso profondamente oscurato nel corso della storia. La riforma del paganesimo, tentata dall’imperatore Giuliano l’Apostata, è solo un esempio iniziale di una simile efficacia. In questo senso, la forza del cristianesimo si espande ben oltre le frontiere della fede cristiana. E perciò molto importante che l’attività caritativa della Chiesa mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante.
Tre gli elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale:

a) Secondo il modello offerto dalla parabola del buon Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce una necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc. Le Organizzazioni caritative della Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas (diocesana, nazionale, internazionale), devono fare il possibile, affinché siano disponibili i relativi mezzi e soprattutto gli uomini e le donne che assumano tali compiti. Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l’impegno del proseguimento della cura. La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la « formazione del cuore »: occorre condurli a quel1’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore (cfr Gal 5, 6).

b) L’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno. Il tempo moderno, soprattutto a partire dall’Ottocento, è dominato da diverse varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell’impoverimento: chi in una situazione di potere ingiusto – essa sostiene – aiuta l’uomo con iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In realtà, questa è una filosofia disumana. L’uomo che vive nel presente viene sacrificato al moloch del futuro, un futuro la cui effettiva realizzazione rimane almeno dubbia. In verità, l’umanizzazione del mondo non può essere promossa rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo umano. Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è «un cuore che vede». Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l’attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili.

c) La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi.` Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. E in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare. Egli sa – per tornare alle domande di prima -, che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. E compito delle Organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire – come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio – diventino testimoni credibili di Cristo.

TOUT VA BIEN, MONSIEUR LE PAPE!

Per una fortunata coincidenza, il consenso della Comunità di Capodarco dell’Umbria all’insegnamento di Benedetto XVI è stato emblematicamente espresso da … Franco Fanucci, che all’interno di questa nostra realtà non sarà il più intelligente, ma sicuramente è il più prepotente; in Piazza S. Pietro, in coda ad un’udienza del mercoledì, Franco, sospinto dal Vicepresidente don Roberto Revelant si è allungato sulla sua carrozzina per dare la mano al successore di Pietro: Tout va bien, monsieur le Pape! Grazie a nome di tutta la comunità!
No, non ha detto così, il figlio del prete, non aveva gli strumenti per farlo. Il fatto però è veramente emblematico, noi della CdCdU, per lo meno, lo vediamo così.

MA NON È UNA NOVITÀ!

Il fulmineo incontro di Franchino con Benedetto XVI non è una novità, in Vaticano: era già accaduto, ancora una volta fulmineamente, nei primi tempi del Pontificato di Giovanni Paolo II.
La foto esprime bene, tra l’altro, il pluralismo della CdCdU: sulla destra di Franchino c’è Cristina Pierotti, esponente dell’Associazione Benedetto XVI; sulla sinistra di Franchino, sotto la verticale della mano del Papa sorride un ottimo “obiettore di coscienza in servizio civile” (così si chiamavano finché la nuova legge votata dalla Destra non li sdirazzò): è Paolo Urbani, di Castelplanio, cattolico anomalo, fratello amatissimo di quell’eroico dr. Carlo Urbani, medico al servizio degli ultimi del mondo, che morì di SARS in Orienteper aver voluto rimanere vicino ad un suo paziente infetto dalla malattia. Appena più in alto, quasi si appoggiasse all’avambraccio del Papa, un altro obiettore di coscienza eccellente: Ubaldo Casoli, che a Gubbio è stato un esponente di spicco prima del PCI, poi dei DS, infine oggi lo è del PD.

POI ABBIAMO SCOPERTO UN’ALTRA CHIESA

Poi però la Comunità di Capodarco dell’Umbria, nella fedeltà alla sue radici prime e al Magistero come autentica pietra di paragone della sua concezione del mondo, ha scoperto … un’altra Chiesa.
Avevamo parlato per tanti anni (per tre decenni) di quella CHIESA DEI POVERI che Papa Giovanni ci aveva promesso l’11 settembre 1962, ad un mese dall’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II.
La chiesa dei poveri l’abbiamo incontrata in Ecuador, a Riobamba, sede di uno dei “Santos Padres de la Iglesia Latinoamericana” più amati, S.E. MONS. LEONIDAS PROAŇO.
Mons. Proaňo era nativo di Ibarra; nel 1954 fu eletto vescovo di Riobamba, capitale della provincia del Chimborazo, EL REY, IL RE, il monte la cui cima è distante dal centro della terra molto più che la cima del’Everest.
Proaňo arrivò su di un macchinone americano di quelli spropositati, lungo da qui a lì. Con in testa una cappello nero, peloso come il vello di una pecora merinos, e ai lati una cascata di nappine. Poi però il Concilio lo convertì.
Dal Concilio tornò a casa e si ridusse ad abitare nel sottotetto del Palazzo Vescovile, lasciando i piani nobili uno alla Radio Campesina (che trasmetteva alle 4 del mattino, quando i campesinos sull’alto delle Ande si alzavano per il lavoro), un altro al dipartimento per l’irrigazione dei terreni, un terzo ad un laboratorio in cui si insegnava come si puo’ produrre un Poncho.
Un terremoto gli rase al suolo la cattedrale; lui decise che l’avrebbe ricostruita solo dopo che fosse riuscito a costruire una chiesa fatta non di pietre, ma di uomini liberi.
La ricostruzione avvenne solo a distanza di trenta anni. Ma chi, nei primi anni 90, si è trovato all’uscita della Messa Domenicale delle ore 17 è stato investito da una fiumana di giovani.

Sulla parete di quella nuova cattedrale di Riobamba c’è questo grande affresco, opera di Adolfo Maria Pérez Esquivel, pacifista argentino che nel 1980 vinse il premio Nobel per la Pace; architetto, scultore, docente universitario, nel 1974 lasciò tutto e si dedico all’assistenza ai poveri e alla lotta contro le ingiustizie sociali e politiche, adottando il metodo della non violenza.
È la Chiesa delle Teologia della Liberazione, che ha messo al centro la croce e, senza peraltro rinunciarvi, ha confinato in un angolo le devozioni: in alto, a sinistra, in piccolo, la Madonna con le ali, l’enorme statua che dall’alto del Panecillo domina la città di Quito.
Intorno alla Croce si addensa non tanto la sofferenza, quando la sete di giustizia degli uomini; ne sono protagonisti i neri, i meticci, le donne, prime fra tutte le Madres de la Plaza de Majo, le donne di Buenos Aires, con la loro lunga battaglia per avere giustizia dal governo argentino che aveva ucciso i loro figli. I vescovi e i sacerdoti sono immersi nela folla. Ci sono anche, in un angolo, i Tupamaros, terroristi la cui stravolta sete di giustizia non può essere ignorata dalla Chiesa di quel Cristo che per tutta la vita lottò contro il potere e ne uscì sconfitto.
In basso, bianco, candido, il corpo inerte di Mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso mentre celebrava messa per avere denunciato la strage di bambini che il governo mandava in esplorazione sui campi minati dai terroristi, e puntualmente uno dopo l’altro saltavano in aria.
Ed è una donna, quasi una nuova Pietà michelangiolesca, che accoglie nel suo grembo il grande martire.