Il nostro riferimento ecclesiale, a suo massimo livello, è il Decreto Conciliare APOSTOLICAM ACTUOSITATEM.
Navighiamo anche noi nel grande fiume che da duemila attraversa la storia, da quando i Dodici partirono dalla Palestina per il mondo, nel nome di Gesù e con la forza dello Spirito: la Chiesa. Però i nostri riferimenti ecclesiali non sono di natura giuridica, non facciamo parte della Chiesa come struttura, la nostra vita non è normata dal Diritto Canonico: tant’è vero che (forse a torto, forse ci ripenserà, forse si troverà una formula che faccia da éscamotage) il Vescovo di Gubbio si è sempre rifiutato di nominare un Assistente Ecclesiastico della CdCdU. Siamo LAICI, ma non apparteniamo a quel laicismo micragnoso e preconcetto che intasa i rapporti tra credenti e non credenti, , ma di quella sana laicità della quale per primo ci ha parlato Paolo VI; una laicità in positivo: la CdCdU è uno dei luoghi in cui le varie antropologie s’incontrano e fanno vedere quanta vita ognuna di esse può produrre in termini di riscatto dei più deboli. Ma questi nostri riferimenti ecclesiali, inesistenti sul piano giuridico, sono fortissimi sul piano pastorale e addirittura fondanti sul piano ideale. Sul piano pastorale al gente deve sapere che se non ci fosse stato Gesù Cristo, e la Chiesa Cattolica, e la Diocesi di Gubbio, la CdCdU non sarebbe mai esistita; e, pur condividendo lo spirito e la prassi pluralista che caratterizza la Comunità di Capodarco, istituzionalmente siamo totalmente disponibili (come dice il nostro Statuto) a collaborare, in modo tutto particolare con la Chiesa locale, per incrementare, all’interno di essa, la dimensione di liberazione personale propria del Cristianesimo, nel pieno rispetto e nella costante tensione a promuovere e a valorizzare le storie e il patrimonio ideale e pratico di gruppi territoriali che si siano formati su altre dinamiche; coerentemente, nel pieno rispetto dei valori personali di ciascun Socio, cura al proprio interno che la proposta cristiana venga fatta a tutti i soci. Su piano ideale il nostro riferimento il grande, grandioso riferimento nostro è il CONCILIO ECUMENICO VATICANO II.

Tra gli impegni qualificanti dei laici, c’è quello di agire all’interno delle opere di assistenza sociale.
Il Concilio ricorda che la Chiesa, come fin dalla sue prime origini, unendo insieme l’agape con la cena eucaristica, si manifestava tutta unita nel vincolo della carità intorno a Cristo, così in ogni tempo si riconosce intorno a questo contrassegno della carità.

“Concilio Ecumenico “: cioè?

Gesù di Nazareth non lasciò nulla di scritto, non ordinò a nessuno di scrivere qualcosa; lasciò dietro di sé solo una piccola comunità, la Ecclesìa (la Chiesa, come assemblea dei chiamati), alla quale ordinò di andare in tutto il mondo e di predicare a tutti gli uomini la buona notizia che Dio li ama, e per questo la vita di ognuno di loro, anche del più emarginato, anche del meno fortunato, ha un valore infinito. Più tardi questa comunità incaricò a quattro suoi esponenti di mettere per iscritto la sua fede, e nacquero i quattro Vangeli.
Secondo i Vangeli, Gesù affidò la comunità che aveva fondato a Pietro singolarmente e anche ai Dodici (Pietro compreso), collegialmente. Per questo noi Cattolici, in tema di fede di morale riconosciamo la massima autorità al Papa (come successore di Pietro) e ai Vescovi (come successori degli Apostoli). Il Papa non è un satrapo orientale, solo e capriccioso, che di giorno in giorno decide quello che la mattina gli passa in testa, ma il titolare di un’autorità (auctoritas, servizio dell’augēre, del far crescere) che essenzialmente consiste nell’interpretare autenticamente la coscienza di tutta la Chiesa; e i Vescovi non sono i suoi rappresentanti nei vari territori, ma i titolari della sua stessa autorità, da soli nella propria diocesi, insieme al Papa per tutta la Chiesa. Quando il Papa e i Vescovi si riuniscono e parlano con una sola voce si ha un Concilio, la massima espressione dell’autocoscienza della Chiesa. Nei primi 2.000 anni di vita della Chiesa ne sono stati celebrati venti. E ognuno di loro ha espresso un giudizio sulle forme che in quel tempo re/interpretavano il messaggio evangelico. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dettato le regole perché le moderne Comunità di Accoglienza di ispirazione cristiana (come la CdCdU) si mantenessero nell’alveo ecclesiale.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II

Nel gennaio del 1958 Papa Giovanni, fra la sorpresa di tutti, annunciò il 20.mo Concilio Ecumenico della storia e lo inaugurò il 12 ottobre 1962. Poi morì. Divenne papa Paolo VI, che riprese la celebrazione del Concilio e lo concluse l’8 dicembre 1965. La Chiesa in gran parte era come in letargo. Il Concilio le dette una scossa che a volte sembrò eccessiva, e questo ebbe i suoi contraccolpi anche negativi: uno non può dormire per un secolo e poi, quando si sveglia, pretendere di tornare a respirare regolarmente, come se nel frattempo nulla fosse cambiato intorno al suo sonno. Il Concilio emanò numerosi documenti, tutti citati con le due parole con le quali comincia il testo latino. Quattro sono i documenti fondamentali, chiamati Costituzioni Conciliari: la Lumen gentium, su “La Chiesa”; la Dei Verbum, su “La divina rivelazione”; la Sacrosanctum Concilium, su “La sacra liturgia”; la Gaudium et spes, su “La Chiesa nel mondo contemporaneo”, di gran lunga il documento più importante, quello che fa imbufalire i tradizionalisti, nostalgici dell’Inquisizione e del Congresso di Vienna, quello che ispira il decreto che ci interessa, l’APOSTOLICAM AUCTORITATEM.

L’Apostolicam auctoritatem

L’”Apostolicam auctoritatem” è il quinto dei dieci Decreti che il Concilio (insieme con tre Dichiarazioni) emanò su argomenti particolari, mentre la quattro Costituzioni riguardavano impostazioni generali importantissime per la determinazione dei capisaldi della vita ecclesiale. Questo quinto decreto porta il sottotitolo “L’apostolato dei laici”. La Chiesa preconciliare chiamava i laici “Chiesa discente”, Chiesa che impara, ovviamente dalla Chiesa che insegna, la “Chiesa docente”: il papa i vescovi, i monaci, i preti. Con un formidabile balzo teologico in avanti, il Concilio fa dei laici i protagonisti della vita della Chiesa, e passa in rassegna gli impegni che competono loro. Gli anni del dopo/Concilio saranno ricchissimi di discussioni e di approfondimenti su questa linea.
La Gerarchia chiamerà Clero e Laici ad esprimersi sulle questioni più urgenti e a prendere parte alla formulazione del linee pastorali da proporre a tutte le diocesi: lo farà in una serie di CONVEGNI ECCLESIALI, che si svolgeranno ogni cinque anni, o quasi; il primo sarà quello del novembre 1976, su Evangelizzazione e promozione umana, sotto la sapiente e appassionata regia di Mons. Giovanni Nervo.

Ma come vivere oggi questa gloriosa tradizione, in clima di pluralismo assistenziale ormai consolidato? …(La Chiesa), mentre gode delle iniziative altrui, rivendica le opere di carità come suo dovere e diritto inalienabile. Perciò la misericordia verso i poveri e gli infermi con le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto, destinate ad alleviare ogni bisogno umano, sono tenute dalla Chiesa in particolare onore.

Una rivendicazione potenzialmente equivoca

Il taglio del paragrafo è dunque polemicamente rivendicativo: si rivendica il diritto/dovere della Chiesa a promuovere opere di carità proprie, contrapposte alle iniziative altrui: un avvio polemico, dietro al quale s’intravede l’annosa questione del conflitto, per tanta parte pretestuoso, fra carità e filantropia.
Rileggendo questo testo a distanza di quaranta anni ci sembra di poter avanzare due considerazioni:
• in un contesto che illustra il ruolo dei laici nella Chiesa, se ne parla dal versante degli operatori: sembra che il versante degli utenti venga dimenticato;
• la rivendicazione del “diritto della Chiesa a fare assistenza”, motivata in base sia al profilo fortemente solidaristico del messaggio biblico, sia all’esempio di Gesù, sia alla costante tradizione della Chiesa, rimane ambigua: si tratta d’una rivendicazione di taglio giuridico o di taglio morale? Se fosse vera la prima risposta, saremmo fuori strada: oggi, laidamente, l’unico vero fondamento giuridico a gestire l’assistenza è da una parte la competenza professionale e dall’altra la carica di umana liberazione che chi vi aspira può mettere in campo.

Una rivendicazione sacrosanta

Dissipato questo potenziale equivoco, la rivendicazione che la Chiesa avanza, di un proprio ruolo nella cura dei poveri, è assolutamente sacrosanta. L’operatore socio/sanitario ricco di fede, oltre che di competenza e di carica umana, rispetto al’operatore sociosanitario corretto e agnostico, HA UNA MARCIA IN PIÙ. Una tesi splendidamente illustrata dal compianto Rettore del Seminario Maggiore di Milano al tempo del Card. Carlo Martini, Mons. LUIGI SERENTHÀ, in un suo aureo inserto nel terzo dei Quaderni di Ricerca e documentazione pubblicato dalla ILEP di Milano nel 1981 con il titolo : L’handicappato e la comunità cristiana, Milano 1981.
La coscienza civile di oggi e i nostri organi di governo sanno he è loro dovere adottare tre atteggiamenti nei suoi confronti: accoglienza: l’handicappato va accolto come persona, al pari di tutti i cittadini; riabilitazione: al disabile va offerta la possibilità di recuperare le abilità fisiche o psichiche che non ha più, o (quanto meno) d’impedire il loro ulteriore deperimento;
socializzazione: il disabile deve avere, o recuperare un suo posto nella convivenza civile. Se l’operatore sociosanitario ha una fede autentica, una di quelle che illuminano ogni angolo della vita sa che, nei confronti del disabile che gli si affida, deve passare dall’accoglienza alla preferenza: non può volergli bene come agli altri, ma più degli altri, proprio in ragione della sua debolezza; e sa che la riabilitazione che egli porta avanti va vista sullo sfondo della resurrezione finale, perché solo allora la riabilitazione sarà vera e completa; sa infine che la socializzazione non basta, perché la vocazione di tutti gli uomini è quella di entrare in profonda comunione tra di loro tramite Cristo. SE l’operatore sociosanitario riuscisse ad impegnare concretamente nel suo lavoro questo tipo di fede, il benessere di colui che egli ha in cura se ne gioverebbe molto, perché si sentirebbe impegnato ad accogliere l’emarginato non solo nella sua professionalità, ma nelle sua vita privata, nella sua casa, nella su famiglia per quanto possibile.

Una dimensione evangelica essenziale, che qualcuno tenta di negare

Oggi non di rado, da parte di cristiani impegnati e magari anche di sacerdoti e di vescovi chi si dedica gli handicappati si sente dire: stai facendo un’opera di supplenza; stai rubando il mestiere al Ministero o all’Assessorato Regionale alla Sanità. Chi si esprime in questi termini dimentica il messaggio evangelico dell’autopresentazione di Gesù e tutto il Magistero della Chiesa nel dopo/concilio. Dopo aver cominciato a predicare, Gesù tornò per un giorno a Nazareth e di sabato nella sinagoga lesse ad alta voce il brano di Isaia: Lo Spirito del Signore .mi ha ,andato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi …; poi commentò: questo testo si è compiuto in me.
E la nel dopo Concilio la Conferenza Episcopale Italiana ha pubblicato una montagna di documenti sul privilegio accordato dalla Bibbia ai poveri, sul primato dei poveri nelle scelte pastorali, sull’opzione preferenziale per i poveri diventata strutturale per tutta la Chiesa ….; nel 1981 la Conferenza Episcopale Italiana pubblicò un documento (La Chiesa italiana e e le esigenze del paese) nel quale insegnava che bisognava RICOMINCIARE dagli ultimi.

Opera di supplenza?

E dunque le comunità come la CdCdU possono anche fare opera di supplenza solo quando mettiamo in atto interventi di natura tecnica, ma quando scelgono di andare a vivere in comunità, in tutta la condivisone di vita che le loro condizioni rendono possibili, lo fanno per sé, per essere Cristiani come Cristo comanda. Perché SENZA I POVERI LA CHIESA NON È LA CHIESA DI CRISTO, MA SOLO UNA CONGREGA DI BUONTEMPONI.

IL CONCILIO E LA CdCdU

A questo punto possiamo parlare dina vera e propria linea diretta tra il Concilio e i cattolici che vivono nella CdCdU e la animano:
• la necessità di verificare la nostra situazione in questo contesto: nessuno può crogiolarsi su quanto è stato fatto fino ai nostri giorni; occorre aprirsi ai bisogni sempre nuovi dell’uomo non meno che alla loro globalità: “L’azione caritativa oggi può e deve abbracciare assolutamente tutti gli uomini, e tutte quante le necessità. Ovunque vi è chi manca di cibo, di bevanda, di vestito, di casa, di medicine, di lavoro, d’istruzione, cioè dei mezzi necessari per condurre una vita veramente umana, chi è afflitto da tribolazioni e da malferma salute, dovunque vi è chi soffre l’esilio o il carcere, quivi la carità cristiana deve cercarli e trovarli, consolidarli con premurosa cura e sollevarli porgendo loro aiuto”; 
• la necessità di procedere ad una serena autocritica; per garantire un corretto esercizio dell’attività caritativa, occorre tornare a calibrare, con una più scrupolosa sensibilità, i criteri ispiratori e gestionali che devono guidare chi nel soccorrere il povero intende ispirarsi all’insegnamento della Scrittura. Evidentemente non sempre e non tutti i criteri usati nel passato sono stati tali.

Gli impegni concreti che il Concilio ci affidò

Il testo si fa molto dettagliato, e in controluce vedi la storia delle deviazioni che l’esercizio della carità nei confronti degli “assistiti” ha fatto registrare lungo l’arco della pur gloriosissima storia della carità della Chiesa: siamo di fronte a una serie di imperativi che possiamo schematizzare e commentare così:
1. L’obbligo di sostenere i poveri s’impone innanzitutto ai singoli uomini e popoli che vivono nella prosperità. Avverti dietro quest’affermazione il vigoroso sostegno di Papa Giovanni a quel “terzomondismo” che segnò in maniera enormemente positiva la formazione dei giovani di quegli anni, che Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno fortemente riproposto fra crescenti ostilità e che dai falsi maestri della TV dell’audience oggi viene sbrigativamente liquidato come uno sfizio da intellettuali di sinistra.
2. Affinché tale esercizio di carità possa essere al di sopra di ogni sospetto e appaia come tale, si consideri nel prossimo l’immagine di Dio secondo cui è stato creato, e di Cristo Signore, al quale veramente è donato quanto si dà al bisognoso. Esortazione sacrosanta, poiché esisteva, ed esiste tuttora, un grosso gap tra la bella proclamazione della “presenza di Cristo nei poveri” e la coerenza della prassi con il principio.
3. Si abbia riguardo, con estrema delicatezza, alla libertà e alla dignità della persona che riceve l’aiuto. Altra esortazione sacrosanta, altrettanto necessaria. Evidentemente non “esageravano” gli handicappati di allora, quando (con neologismo reso poi orribile dall’abuso) si sentivano del tutto “strumentalizzati” da certe suore dentro certi istituti, e trattati diversamente se facevano o no la comunione eucaristica.
4. La purità d’intenzione non sia macchiata da ricerca alcuna della propria utilità e da desiderio di dominio. I piccoli e grandi affari lucrati sulla pelle dei poveri. L’assistenza ai poveri, pedina di primaria importanza sulla scacchiera dei giuochi politici orchestrati dal “partito dei Cristiani”.
5. Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia.
6. Si eliminino non soltanto gli effetti, ma anche le cause dei mali.
7. L’aiuto sia regolato in tal modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi”

Sette “imperativi”, in crescendo. Vincolanti per noi.

A 45 anni di distanza dal quando il Concilio si chiuse, in buona coscienza possiamo dire d’aver navigato molto, d’avere anche momentaneamente smarrito la rotta, ma con la barra del timone sempre fissa là dove il Concilio l’aveva collocata.